La novantacinquesima parola buona è MANCANZA.
Un uomo uscito dal carcere dopo molti anni di detenzione, mi racconta di essere invidioso dei cani che vengono chiamati per nome dai loro padroni. Li osserva quando esce di casa per acquistare il pane quotidiano. Sono trascorsi troppi anni lontano da parenti e amici perché qualcuno ancora lo cerchi semplicemente per domandargli come si senta. Nessuno avverte la sua mancanza.
Non è scontato accorgersene, ma quando diciamo “mi manchi” a qualcuno, usiamo delle parole molto buone, quasi magiche. Pronunciando un “già mi manchi” prende corpo il desiderio di appartenere a qualcuno al di là delle separazioni e delle perdite.
Scrive bene Olivia Ninotti : “Chi non sa cos’è l’attesa non può capire appieno il vero significato della vita” (Sembrava un british invece era un merdish. Vol. II). Al centro del suo secondo romanzo, infatti, è messo in evidenza un principio sapiente che nella vita può capitare di comprende tardi, a volta anche troppo tardi : che anche i cambiamenti hanno senso e che pure hanno un gran valore i ricordi così tanto sfumati da poter essere recuperati solo a parole.
Nel libro come nella vita, lutti e malinconie continuano a rincorrersi. Luna, la gatta narratrice, osserva con lucidità che il trono – rappresentato nel racconto dal livello più alto di un tiragraffi – è occupato indistintamente da tutti, vinti e vincitori. Racconta che per fare bene il prezioso lavoro di tessitura tra ciò che non c’è più e ciò che potrà ancora essere, è necessario che resti un dolore anche piccolo, ma capace di bussare sempre. Secondo la micia, è un trucco di cui sono capaci gli esseri umani per non precipitare nell’incubo di perdersi, per appartenersi oltre il limite, per rimane capaci di dire “mi manchi” proprio a chi potrebbe non tornare più.
La nuova parola buona è MANCANZA
Sapere di poter perdere, attiva il desiderio di ritrovare a tutti i costi ciò che amiamo.
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